Differenza tra locazione finanziaria e non finanziaria

Il leasing finanziario (o locazione finanziaria) è un contratto mediante il quale un soggetto concede a un altro la disponibilità di un bene mobile o immobile per un determinato periodo di tempo, dietro pagamento di un corrispettivo periodico (canone), attribuendogli la facoltà di acquistare la proprietà di tale bene alla scadenza del contratto, mediante versamento di un prezzo prestabilito. Malgrado l’ampia diffusione nella prassi, il leasing finanziario è rimasto a lungo privo di una propria disciplina normativa, tanto da essere ricondotto nell’alveo dei contratti atipici. La L. n. 124/2017 ha quindi dettato una specifica disciplina del leasing finanziario. Analizziamo i tratti salienti di tale disciplina, accennando anche alla disciplina del leasing finanziario in caso di fallimento.

1. Definizione e caratteristiche del leasing finanziario 

Il leasing finanziario (o locazione finanziaria) è un contratto mediante il quale un soggetto concede a un altro la disponibilità di un bene mobile o immobile per un determinato periodo di tempo, dietro pagamento di un corrispettivo periodico (canone), attribuendogli la facoltà di acquistare la proprietà di tale bene alla scadenza del contratto, mediante versamento di un prezzo prestabilito.

Tale contratto – elaborato nella prassi statunitense, e importato in Italia a partire dagli anni sessanta del secolo scorso – è generalmente concluso nell’ambito di un’operazione trilaterale, alla quale partecipano:

  • un’impresa finanziaria (lessor, o concedente);
  • un’impresa interessata all’uso del bene (lessee, o utilizzatore);
  • un’impresa produttrice o distributrice del bene (fornitore).

L’utilizzatore, interessato all’utilità di un determinato bene ma al contempo non intenzionato a sostenere gli oneri economici e fiscali di un acquisto, si rivolge al concedente incaricandolo di procedere all’acquisto del bene, previa indicazione del fornitore presso il quale intende approvvigionarsi. Il concedente effettua quindi all’acquisto presso il fornitore indicato e, mantenendo la titolarità del diritto di proprietà sul bene acquistato, ne cede il godimento all’utilizzatore in cambio di un corrispettivo periodico.

Alla scadenza del contratto, l’utilizzatore ha la facoltà di scegliere tra il riscatto del bene mediante il pagamento di un prezzo finale, la proroga della locazione o la restituzione del bene al concedente finanziatore.

L’attività di locazione finanziaria può essere esercitata soltanto dalle banche iscritte all’albo di cui all’art. 13 del D.lgs. n. 385/1993 (Testo Unico Bancario, o TUB), dai soggetti appartenenti ai gruppi creditizi iscritti nell’albo di cui all’art. 64 TUB, dagli intermediari iscritti nell’elenco generale di cui all’art. 106 TUB, oppure nelle sezioni speciali dell’elenco generale previste dagli artt. 107 e 113 TUB. Il legislatore ha, infatti, previsto che per esercitare in via prevalente nei confronti del pubblico attività finanziaria, e quindi anche la locazione finanziaria, è necessario soddisfare alcuni requisiti soggettivi minimi ai fini dell’iscrizione nell’elenco generale tenuto dal Ministero del tesoro (art. 106 TUB).

Il leasing finanziario si distingue dal leasing c.d. operativo o diretto – che rappresenta la forma più antica e meno utilizzata di leasing – con il quale l’utilizzatore acquista la disponibilità del bene per un periodo determinato di tempo, a fronte del pagamento di un canone periodico commisurato al valore d’uso del bene stesso. Da un punto di vista giuridico, tale forma di leasing è riconducibile alla locazione. Il leasing operativo ha generalmente ad oggetto beni standardizzati e soggetti a rapida obsolescenza; la durata del contratto generalmente coincide con la vita economica del bene e l’ammontare del canone è proporzionato all’utilizzo del bene piuttosto che al suo costo. Nel leasing operativo non è inoltre di solito previsto il diritto di riscatto per l’utilizzatore.

Il leasing finanziario presenta diversi vantaggi per ognuno dei contraenti. Il concedente, conservando la titolarità del bene acquistato nell’interesse dell’utilizzatore, è preservato da un’eventuale insolvenza di quest’ultimo (diversamente da ciò che accade nel caso di un contratto di mutuo, nel quale il mutuante, anticipando il capitale per l’acquisto senza acquisire la proprietà del bene, rimane maggiormente esposto alle conseguenze dell’insolvenza dell’utilizzatore). L’utilizzatore dal canto suo non anticipa capitale per l’acquisto del bene ed ha la possibilità di rinnovare l’oggetto dell’acquisto stipulando un nuovo contratto di leasing alla scadenza del primo, sostituendo i beni qualora divengano obsoleti con beni tecnologicamente più avanzati. Riceve, inoltre, un vantaggio fiscale, potendo imputare al passivo dell’impresa i canoni di godimento corrisposti al finanziatore. Il fornitore, infine, vede soddisfatto il proprio interesse commerciale alla vendita del bene richiesto dall’utilizzatore e acquistato dal concedente.

2. La struttura giuridica del leasing finanziario 

La causa del leasing finanziario non coincide con quella della locazione pura e semplice, né con quella della vendita con riserva di proprietà. Essa è invece riconducibile a quella dei contratti finanziari: il concedente mette a disposizione dell’utilizzatore il bene (appositamente acquistato o fatto costruire) per un certo periodo di tempo, con l’obbligo a carico dell’utilizzatore di pagare, come restituzione del finanziamento, canoni periodici, il cui ammontare complessivo tiene conto dell’esborso fatto dal concedente per l’acquisto o per l’appalto del bene.

Il canone nel leasing finanziario rappresenta quindi non tanto il corrispettivo per la locazione del bene quanto la modalità di restituzione del finanziamento, che è pari al costo del bene aumentato del compenso per l’attività del concedente (sotto forma di interessi sul capitale investito). La concessione in godimento del bene ha funzione strumentale rispetto alla vendita; per tale motivo l’utilizzatore, alla scadenza prestabilita, può esercitare l’opzione di riscatto del bene stesso, acquisendolo in proprietà dietro pagamento di un importo, mentre il mantenimento della proprietà in capo al concedente ha essenzialmente funzione di garanzia.

Dottrina e giurisprudenza prevalenti, pur concordando che sotto l’aspetto economico l’operazione di leasing ha struttura trilaterale, negano tuttavia che dal punto di vista giuridico possa configurarsi come contratto plurilaterale o trilaterale, difettando il conseguimento di uno scopo comune alle parti. Si ritiene infatti che il leasing si articoli in due contratti bilaterali:

  • il contratto tra concedente e fornitore (riconducibile alla compravendita o all’appalto);
  • il contratto tra concedente ed utilizzatore (contratto di leasing in senso stretto).

Tali contratti sono funzionalmente collegati, in quanto il contratto di fornitura viene concluso dalla società di leasing allo scopo, noto al fornitore, di realizzare l’interesse del futuro utilizzatore ad acquistare la disponibilità di quel particolare bene.

3. Lo schema di conclusione del leasing finanziario 

Generalmente, la sequenza di atti che porta alla costituzione del rapporto di leasing è la seguente:

  • Il futuro utilizzatore individua il fornitore del bene che, soddisfacendo le proprie esigenze, ritiene debba costituire l’oggetto del contratto; pertanto, contatta il fornitore e con questi addiviene alle necessarie pattuizioni intorno a prezzo, modello, tipo e modalità di consegna del bene.
  • Il futuro utilizzatore si rivolge alla società di leasing e formula, su un testo da questa unilateralmente predisposto, una proposta irrevocabile di leasing valida per un determinato periodo di tempo, con l’indicazione del bene, del fornitore e delle condizioni d’acquisto e di leasing.
  • La società di leasing effettua una valutazione del merito creditizio e, se ritiene il proponente idoneo all’operazione sul piano della solvibilità finanziaria ed in relazione al particolare tipo di investimento richiesto, aderisce alla suddetta proposta e sottopone all’utilizzatore il testo del contratto di leasing, anch’esso predisposto dal medesimo concedente.
  • Il concedente acquista o fa costruire il bene dal fornitore secondo le indicazioni e conformemente alle condizioni pattuite con l’utilizzatore, e anche in questo caso mediante un modello di contratto che predispone unilateralmente.
  • Il fornitore, in virtù del contratto di fornitura, consegna il bene direttamente all’utilizzatore, facendogli sottoscrivere un verbale di consegna (ed eventualmente di collaudo) che attesta la corrispondenza del bene consegnato a quello prescelto.
  • L’originale del verbale viene inviato al concedente, il quale corrisponde l’intero prezzo al fornitore e mette in decorrenza il contratto di leasing, determinando l’inizio del rapporto contrattuale. Dalla consegna del bene all’utilizzatore matura il diritto del concedente al ricevimento dei canoni periodici.

4. Il contenuto tipico del leasing finanziario

Il contenuto tipico del contratto di leasing finanziario prevede generalmente le seguenti pattuizioni:

  • il godimento del bene è concesso per un periodo di tempo determinato, che non eccede la vita tecnico-economica del bene stesso, tendendo a coincidere con essa nel leasing di beni strumentali, ed essendo ad essa inferiore negli altri casi;
  • l’utilizzatore deve eseguire il pagamento di canoni periodici, la cui misura complessiva è ragguagliata al prezzo di acquisto sopportato dal concedente ed è comprensiva, oltre che dell’ammortamento, degli interessi sul capitale investito, delle spese di gestione e del margine di profitto dell’impresa di leasing. Esso si presenta, pertanto, di regola più elevato di un comune canone di locazione;
  • spesso l’utilizzatore versa al concedente un anticipo sul canone al momento della stipula del contratto, insieme alle spese di contratto (cd. maxi-canone), calcolato in percentuale sul valore del bene, per ridurre i rischi di perdita del concedente in caso d’insolvenza dell’utilizzatore;
  • alla scadenza convenuta, all’utilizzatore è consentito di acquistare la proprietà sul bene, in virtù di un’opzione di riscatto prevista dal regolamento d’interessi per un prezzo predeterminato, di regola modesto per i beni strumentali, maggiore per i beni di consumo durevoli;
  • le conseguenze di ogni rischio inerente il bene (mancata o ritardata consegna da parte del fornitore, avarie durante il trasporto, vizi, perdita, danni cagionati a terzi) gravano interamente sull’utilizzatore, e su quest’ultimo grava l’obbligo di provvedere alla sua manutenzione, sia ordinaria che straordinaria. Generalmente all’utilizzatore è imposta la stipulazione di un contratto di assicurazione che copra tali rischi, così da far fronte ai danni che potrebbero derivare dal bene o essere provocati al bene medesimo;
  • all’assunzione di tali rischi da parte dell’utilizzatore fa da contrappeso l’estensione a quest’ultimo di una serie di garanzie che spetterebbero al concedente, in quanto proprietario formale del bene. Il lessee può, così, esercitare le azioni giudiziarie che normalmente spetterebbero al solo proprietario direttamente contro il fornitore e contro i terzi;
  • all’utilizzatore è fatto divieto di cedere il contratto o sublocare il bene senza l’autorizzazione del concedente;
  • spesso è previsto un patto di riacquisto, con il quale il fornitore del bene, che ne ha trasferito la proprietà al concedente, s’impegna a riacquistarlo nell’ipotesi di risoluzione del contratto tra concedente e utilizzatore per inadempimento di questo ultimo.

5. Le clausole di inversione del rischio 

Nella prassi contrattuale del leasing finanziario sono frequenti le c.d. clausole di inversione del rischio, in base alle quali gravano sul concedente i soli rischi strettamente finanziari connessi all’eventualità che l’utilizzatore non adempia agli obblighi stabiliti nel contratto di leasing, mentre ogni rischio relativo al bene viene sopportato dal lessee, esonerando così il lessor dalle relative responsabilità, in deroga alle norme codicistiche che operano in materia di locazione. In tal modo, il concedente resta sostanzialmente insensibile rispetto alle vicende del contratto di fornitura del bene.

In particolare, sono frequenti le clausole in base alle quali l’utilizzatore:

  • è tenuto a pagare i canoni anche in caso di mancata o ritardata consegna del bene da parte del fornitore, ferma restando la possibilità di agire per il risarcimento dei danni nei confronti del venditore;
  • non può invocare nei confronti del concedente la garanzia per vizi, difetti o mancanza delle qualità richieste, anche qualora tali circostanze ne rendano del tutto impossibile il godimento;
  • è responsabile per la perdita, il perimento totale o parziale ed il furto del bene, anche se dovuti a causa a lui non imputabile, sicché, in tal caso, è tenuto a corrispondere i canoni residui, anche se ha cessato di godere del bene.

Secondo la giurisprudenza prevalente, tali clausole sono valide, in quanto, in ossequio al carattere prevalentemente finanziario del leasing, il concedente acquista unicamente per l’utilità dell’utilizzatore – il quale prende autonomamente contatti con il fornitore, sceglie il bene, che viene consegnato direttamente dal fornitore rimanendo estraneo ai rapporti tra questi e il fornitore e quindi non tenuto alle garanzie per vizi ed evizione.

La validità delle clausole di inversione del rischio si giustifica inoltre in quanto alla traslazione dei rischi in capo all’utilizzatore corrisponde l’attribuzione allo stesso dei rimedi contrattuali (quali in particolare l’azione di consegna o garanzia per vizi) contro il fornitore, che spetterebbero normalmente al concedente in quanto parte acquirente nel contratto di vendita del bene.

Tuttavia, la giurisprudenza prevalente ritiene che la clausola che riversi sull’utilizzatore il rischio della mancata consegna del bene da parte del fornitore sia invalida, in quanto l’utilizzatore ha diritto di chiedere la risoluzione del contratto di leasing per sopravvenuta impossibilità di adempiere dipendente dal debitore (concedente), ai sensi dell’art. 1463 c.c.

6. La tutela dell’utilizzatore 

La presenza delle clausole di inversione del rischio, che esonerano il concedente da qualsiasi responsabilità attinente al bene, pone un problema di tutela dell’utilizzatore per i casi di inadempimento del fornitore.

Come accennato, spesso i contratti di leasing prevedono apposite clausole che consentono all’utilizzatore – benché terzo rispetto al contratto tra concedente e fornitore – di esperire direttamente nei confronti del fornitore una serie di azioni inerenti il contratto di acquisto del bene concesso in leasing spettanti al concedente, ivi compresa l’azione di risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. per inadempimento del fornitore stesso.

In assenza di tali clausole, ed atteso l’orientamento prevalente, che, come si è visto, configura il leasing come contratto avente struttura bilaterale (costituito da due distinti contratti, il primo di compravendita tra concedente e fornitore, il secondo di leasing tra concedente e utilizzatore, funzionalmente collegati tra di loro) la giurisprudenza prevalente consentiva all’utilizzatore la proponibilità di azioni dirette nei confronti del fornitore in caso di inadempimento di quest’ultimo, assimilando l’utilizzatore alla figura del mandante senza rappresentanza, cui è riconosciuto, ai sensi dell’art. 1705, 2° comma c.c., il diritto di esercitare i crediti derivanti dal contratto di compravendita stipulato dal concedente (mandatario) e quello di agire direttamente nei confronti del terzo fornitore in caso i inadempimento di quest’ultimo, anche in assenza di apposita clausola contrattuale.

In proposito, la Cassazione a sezioni unite, con la sentenza n. 19785/2015, ha stabilito che non sussiste un collegamento in senso tecnico tra i due contratti di compravendita e di leasing, con la conseguenza che l’utilizzatore, in assenza di specifica clausola contrattuale, non può esperire l’azione di risoluzione del contratto di compravendita direttamente nei confronti del fornitore. Tuttavia, secondo la Corte l’utilizzatore può essere tutelato in caso di inadempimento del fornitore in base al principio di buona fede ex art. 1375 c.c.

In particolare, secondo i giudici di legittimità, occorre distinguere due diverse ipotesi:

  • nel caso in cui i vizi siano emersi prima della consegna, rifiutata dall’utilizzatore, questi è tenuto ad informarne il concedente, il quale dovrà sospendere il pagamento del prezzo nei confronti del fornitore ed esperire l’azione di risoluzione del contratto di fornitura, con conseguente risoluzione anche del contratto di leasing;
  • qualora, invece i vizi (occulti o taciuti in mala fede) emergano successivamente, l’utilizzatore potrà agire direttamente contro il fornitore per l’eliminazione dei vizi o la sostituzione della cosa, gravando sul concedente l’obbligo di agire verso il fornitore per la risoluzione del contratto di fornitura o per la riduzione del prezzo, con tutte le conseguenze sul collegato contratto di leasing.

7. Leasing di godimento e leasing traslativo 

Malgrado l’ampia diffusione nella prassi, il leasing finanziario è rimasto a lungo privo di una propria disciplina normativa, tanto da essere ricondotto nell’alveo dei contratti atipici. Prima della legge n. 124/2017 (v. par. 8), il leasing era infatti disciplinato solo da alcune normative di settore, quali in particolare:

  • l’art. 72-quater l. fall., che disciplina le sorti del contratto in caso di sopravvenuta insolvenza di uno dei contraenti (v. par. 13);
  • varie normative di natura tributaria (tra le quali in particolare l’art. 102 TUIR);
  • la Convenzione di Ottawa del 28 maggio 1988, ratificata con la 14 luglio 1993, n. 259, che si applica alle ipotesi in cui concedente ed utilizzatore appartengano ad ordinamenti diversi.
  • le norme sul credito al consumo (art. 121 TUB);
  • le norme sul leasing immobiliare abitativo, introdotte dalla legge n. 208/2015 (c.d. Legge di Stabilità 2016);
  • le norme sul leasing applicabile a enti pubblici (art. 187 D.lgs. n. 50/2016).

In mancanza di una disciplina organica e specifica, la giurisprudenza aveva avvertito la necessità di procedere alla qualificazione giuridica del contratto di leasing, inquadrandone l’oggetto e la causa, in modo da identificarne i punti di contatto con una fattispecie negoziale tipica e individuare la disciplina applicabile in via di applicazione analogica. La Cassazione, a partire da sei sentenze del 1989 (Cass. 13 dicembre 1989, dalla n. 5569 alla n. 5574), e con orientamento poi confermato in numerose pronunce successive (Cass. Sez. Un. n. 65/1993; Cass. n. 73/2010; Cass. n. 19732/2011; Cass. n. 6578/2013; Cass. n. 19272/2014; Cass. n. 8687/2015), aveva distinto il leasing finanziario in due distinte figure giuridiche. Tali figure, come si vedrà, sono state superate prima dall’introduzione della norma di cui all’art. 72-quater l. fall., e poi, soprattutto, dalla legge n. 124/2017 (v. par. 8). 

La prima figura, definita come leasing tradizionale o di godimento, si caratterizzava per avere ad oggetto beni strumentali all’esercizio dell’impresa, che esauriscono la propria vita economica in corrispondenza della scadenza del contratto. In questo tipo di leasing, i canoni, la cui entità è commisurata alla durata del contratto, costituiscono sostanzialmente il corrispettivo del godimento del bene da parte dell’utilizzatore; il valore di mercato residuo dei beni al termine del contratto è minimo e coincide con il prezzo per l’opzione di acquisto, la quale è eventuale e marginale rispetto all’assetto degli interessi delle parti e costituisce il corrispettivo del godimento del bene.

Il leasing finanziario di godimento era caratterizzato da un carattere imprenditoriale – in quanto i beni oggetto del contratto erano strumentali all’esercizio dell’impresa – e presentava spiccate analogie con il contratto di locazione, in quanto diretto a realizzare una prevalente funzione di finanziamento a scopo di godimento del bene. Di conseguenza, allo stesso la giurisprudenza applicava per analogia per lo più le norme codicistiche in materia di contratto di locazione.

La giurisprudenza riteneva che, trattandosi di un contratto di durata con funzione di finanziamento, la risoluzione del contratto di leasing di godimento per inadempimento dell’utilizzatore non incidesse retroattivamente sulle prestazioni già eseguite (art. 1458 1° co. c.c.); pertanto, in caso di inadempimento dell’utente la società di leasing aveva diritto di ottenere la restituzione del bene e di trattenere i canoni già riscossi, a titolo di risarcimento danni. Si riteneva peraltro che il giudice potesse ridurre tale importo, in applicazione analogica dell’art. 1384 c.c. (che, come è noto, che assegna al giudice il potere di riduzione equitativa della penale ritenuta manifestamente eccessiva), allo scopo di evitare che il concedente potesse ottenere, in caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, più di quanto avrebbe avuto diritto a pretendere in caso di esecuzione integrale dello stesso accordo negoziale.

La giurisprudenza aveva infatti evidenziato che nel leasing di godimento i canoni costituiscono il corrispettivo dell’utilizzazione del bene e non rappresentano una porzione del prezzo; durante lo svolgimento del rapporto sussiste quindi una corrispettività tra le prestazioni delle parti, realizzandosi un equilibrio sinallagmatico tra concessione in godimento del bene e pagamento del canone. Essendo, pertanto, ravvisabili nel leasing di godimento i connotati propri del contratto ad esecuzione continuata o periodica, si era fatta applicazione del principio generale, sancito dall’art. 1458 c.c., di irretroattività inter partes degli effetti della risoluzione, con la conseguenza che le prestazioni già eseguite, in quanto reciprocamente legate da un nesso di corrispettività, restano definitivamente acquisite a vantaggio del contraente in favore del quale sono state rese, senza obblighi restitutori.

La seconda figura di leasing finanziario, definita come leasing traslativo o “di consumo”, aveva invece ad oggetto beni standardizzati e di largo consumo, non strumentali all’esercizio dell’impresa, che conservano un considerevole valore economico allo scadere del contratto. La durata del contratto non coincide con l’obsolescenza tecnico-economica del bene, in quanto alla scadenza esso ha un valore superiore rispetto al prezzo per l’opzione di acquisto. I canoni sono commisurati non già al valore del solo godimento, ma al valore del bene in quanto tale: ogni canone rappresenta infatti, oltre ad una quota imputabile al godimento, anche una quota di prezzo.

Nel leasing traslativo, il trasferimento del bene all’utilizzatore non costituiva, come nel leasing tradizionale, un’eventualità marginale ed accessoria, ma rientrava nella funzione assegnata dalle parti al leasing. Il trasferimento della proprietà in favore dell’utilizzatore al termine del contratto rappresentava un evento prevedibile o addirittura programmato, con conseguente applicazione analogica delle norme codicistiche sulla compravendita.

La giurisprudenza prevalente riteneva che la risoluzione del contratto leasing traslativo per inadempimento dell’utilizzatore avesse effetto retroattivo, con il conseguente diritto delle parti di ottenere la restituzione di quanto prestato, in applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. in materia di risoluzione della vendita con riserva di proprietà. La società di leasing aveva quindi diritto a vedersi restituito il bene e a sua volta a restituire le rate già riscosse, salvo il diritto a trattenere una somma quale equo compenso per il godimento del bene da parte dell’utilizzatore, in misura pari al deprezzamento subito dal bene stesso (ovvero pari alla differenza tra il costo originariamente sostenuto dalla società di leasing per l’acquisto del bene e il valore attuale del bene stesso).

La ratio sottesa alla previsione di cui all’art. 1526 c.c., consistente nell’esigenza di contenere il debito dell’acquirente nei limiti del vantaggio acquisito per il godimento della cosa sino al momento della risoluzione del contratto, così da evitare che il venditore realizzi un indebito arricchimento trattenendo le rate già pagate, in quanto sprovviste di giustificazione causale, era stata riscontrata dalla giurisprudenza anche nel leasing traslativo; anche in tal caso, infatti, la società concedente in leasing realizzerebbe un indebito arricchimento qualora, oltre a mantenere la proprietà del bene, potesse acquisire i canoni già riscossi, comprensivi non solo del corrispettivo del godimento, ma anche di parte del prezzo.

Non si riteneva, invece, applicabile al leasing traslativo l’art. 1458 c.c., non essendo ravvisabile una corrispettività delle reciproche prestazioni, giacché ciascun canone costituisce il corrispettivo sia della concessione in godimento (per la parte già eseguita sino al momento della risoluzione) sia del futuro trasferimento della proprietà.

La giurisprudenza aveva elaborato una serie di indici rilevatori dell’appartenenza di una fattispecie concreta all’uno o all’altro tipo di leasing. Tra di essi assumeva particolare rilievo la previsione originaria, ad opera delle parti, del rapporto tra valore residuo del bene e prezzo di opzione alla scadenza del contratto. Infatti, il valore modesto del bene alla scadenza del contratto e l’esiguità del prezzo di opzione indicavano che i canoni versati dall’utilizzatore costituivano solo il corrispettivo del godimento e non anche il pagamento di una quota del prezzo del bene, e quindi deponevano per l’inquadramento del contratto nell’ambito del leasing di godimento; viceversa, se il valore del bene era notevolmente superiore al prezzo di opzione, al contratto veniva assegnata natura di leasing traslativo.

8. La legge n. 124 del 2017

Ai contrasti interpretativi circa il regime normativo del leasing finanziario in ambito civilistico ha posto rimedio il legislatore che, all’art. 1, comma 136 e seguenti, della legge 4 agosto 2017 n. 124, ha dettato una specifica disciplina del leasing finanziario.

Il legislatore ha, peraltro, scelto di disciplinare solo i tratti qualificanti del contratto e il profilo patologico del rapporto, ovvero l’inadempimento dell’utilizzatore e la conseguente risoluzione del contratto, e non anche i profili fisiologici del contratto. Tale scelta è probabilmente motivata dall’intenzione di evitare un irrigidimento poco consono ad un contratto, quale quello di leasing finanziario, che assume connotazioni diverse in rapporto alla diversa natura dei beni (si pensi solo alle differenze tra leasing di beni strumentali, leasing nautico, leasing al consumo, leasing immobiliare, e così via).

Pur in assenza di una disciplina esaustiva, la nuova normativa consente di superare la classificazione del leasing finanziario come contratto atipico. Peraltro, tale normativa dovrà essere coordinata con le altre previgenti norme speciali dettate in tema di leasing finanziario, norme sul credito al consumo, sul leasing abitativo e sul leasing applicabile a enti pubblici, nonché con le disposizioni dedicate al leasing finanziario nella legge fallimentare, e segnatamente, con l’art. 72-quater l. fall. (v.par. 13).

In proposito, la L.  n. 124/2017, all’art. 1 comma 140, si limita a menzionare – facendone salva l’applicazione – le norme sul leasing abitativo, di cui alla legge 28 dicembre 2015 n. 208, e l’art. 72-quater l. fall. Con riferimento a tutte le (numerose) rimanenti norme speciali previgenti dettate in tema di leasing finanziario, occorrerà dunque, di volta in volta, stabilire se la nuova disciplina introdotta dalla L. n. 124/2017 sia applicabile o meno, sulla base dei principi generali per la risoluzione delle antinomie tra norme giuridiche.

L’art. 1 comma 136 della L. n. 124/2017 definisce il leasing finanziario come “il contratto con il quale la banca o l’intermediario finanziario iscritto nell’albo di cui all’articolo 106 del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di restituirlo”.

La definizione legislativa ricalca sostanzialmente i lineamenti del contratto di leasing finanziario già consolidati nella prassi, e conferma la natura essenzialmente finanziaria dell’operazione e la conseguente qualificazione del leasing finanziario come contratto di durata con causa di finanziamento. Sotto il profilo soggettivo, la nuova normativa conferma che il ruolo di soggetto utilizzatore può essere rivestito sia da imprenditori (imprese o professionisti) che da consumatori.

Alla luce della nuova definizione legislativa, è divenuta sostanzialmente irrilevante la distinzione tra leasing di godimento e traslativo (v. par. 7), dato che la assoggettabilità o meno alla nuova disciplina dipende unicamente dalla circostanza se sia attribuito o meno all’utilizzatore il diritto di riscatto (v. par. 9), a prescindere dai profili economici delle condizioni pattuite. Ne deriva, inoltre, l’inapplicabilità della normativa civilistica relativa alla vendita con patto di riscatto, data la causa finanziaria del contratto.

9. Il diritto di riscatto 

Ai sensi dell’art. 1, comma 136, della L. n. 124/2017, il leasing finanziario prevede l’opzione di acquisto del bene da parte dell’utilizzatore, ad un prezzo prestabilito, ovvero, in caso di mancato esercizio, l’obbligo di restituzione del bene. La norma non precisa né la forma con la quale debba essere esercitata l’opzione né il termine entro il quale la stessa possa essere esercitata; tali elementi dovranno pertanto continuare ad essere regolati dal contratto di locazione finanziaria.

La previsione legislativa, richiedendo necessariamente la previsione di un diritto di riscatto in favore dell’utilizzatore, implica che la nuova disciplina non è applicabile al leasing operativo (v.par. 1) non essendo generalmente previsto in tale operazione un patto di riscatto.

Qualora l’utilizzatore eserciti il diritto di opzione, tale soggetto acquisisce automaticamente il diritto di proprietà del bene, indipendentemente dal pagamento del corrispettivo. In ogni caso, se il pagamento del corrispettivo non venisse effettuato dall’utilizzatore, al concedente spetterà sia l’azione di adempimento del contratto di compravendita (per il pagamento del prezzo di riscatto) che l’azione di risoluzione del medesimo contratto (con conseguente riacquisto della proprietà del bene e diritto al risarcimento del danno da parte del concedente).

Qualora invece l’utilizzatore non eserciti il diritto di opzione, lo stesso ha l’obbligo di restituire il bene al concedente. Tale previsione dovrebbe contribuire a snellire le procedure di recupero del bene da parte dell’intermediario concedente in caso di cessazione del contratto, in mancanza di esercizio del diritto di opzione da parte dell’utilizzatore.

10. La risoluzione del contratto di leasing finanziario

I commi 137–139 dell’art. 1 della L. n. 124/2017 disciplinano la risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, che costituisce generalmente la fonte di maggiore conflittualità tra le parti nelle operazioni di leasing finanziario. Il comma 137 prevede che “costituisce grave inadempimento dell’utilizzatore il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria”.

La previsione qualifica le ipotesi di inadempimento finanziario dell’utilizzatore, individuando i requisiti minimi della “gravità” che possono legittimare la risoluzione da parte del concedente. La ratio della norma appare ispirata a tutelare l’utilizzatore dal pericolo di una prematura azione di risoluzione esercitata dal concedente, evidentemente identificato come parte “forte” del rapporto di leasing finanziario.

Pertanto, le eventuali clausole risolutive espresse, contenute frequentemente nei contratti di leasing, che prevedessero la risoluzione del contratto anche in caso di inadempimento dell’utilizzatore per mancato pagamento dei canoni mensili e/o trimestrali inferiore al numero previsto dalla nuova normativa – finora ritenute legittime dalla giurisprudenza, in base al principio di autonomia contrattuale – dovranno ritenersi inefficaci, essendo in tal caso preclusa ogni indagine del giudice circa la gravità dell’inadempimento, ai sensi dell’art. 1455 c.c.

Non è chiaro se quella prevista dalla norma in esame costituisca l’unica forma di risoluzione del contratto di leasing finanziario ammissibile, o se, viceversa, la risoluzione sia invocabile anche per inadempimenti diversi da quello economico. Parte della dottrina ritiene che siano ammissibili altre ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimenti di tipo “gestorio”, qualora il comportamento dell’utilizzatore, pur diverso dal mancato pagamento reiterato dei canoni, sia tale da provocare grave pregiudizio al concedente tale da legittimarlo a richiedere la risoluzione secondo il diritto comune.

Ciò potrebbe accadere, ad esempio, nel caso in cui il bene sia abbandonato, o ne sia mutata la destinazione d’uso, o non vengano effettuati i necessari interventi di manutenzione, riducendo così in modo notevole il valore economico del bene – soprattutto in caso di rinunzia dell’utilizzatore all’esercizio del diritto di opzione – o, infine, qualora vengano meno le garanzie economico-patrimoniali di cui l’utilizzatore deve disporre per poter validamente accedere al credito.

In tali ipotesi resta dunque salva la possibilità delle parti di prevedere nel contratto clausole risolutive espresse – in ossequio al principio dell’autonomia negoziale di cui all’art. 1322 c.c. che la legge n. 124 non sembra aver scalfito – o comunque la possibilità del giudice di pronunciare la risoluzione del contratto per inadempimento, previa dimostrazione della gravità dello stesso, ex art. 1455 c.c.

Risolto il contratto, ai sensi dell’art. 1, comma 138, della L. n. 124/2017, l’utilizzatore è tenuto alla restituzione del bene e al concedente è riconosciuto il diritto di trattenere quanto ricavato dalla sua vendita o “altra collocazione” fino a concorrenza dei canoni scaduti e non pagati alla data della risoluzione, dei canoni a scadere solo in linea capitale e del prezzo d’acquisto finale, oltre alle spese di recupero, stima e conservazione del bene fino alla sua riallocazione, versando all’utilizzatore l’eventuale residuo importo. In caso invece di differenza negativa, l’importo corrispondente resta dovuto dall’utilizzatore.

La disciplina risponde all’esigenza di riequilibrare le posizioni dei contraenti, in modo da scongiurare indebiti arricchimenti a vantaggio del concedente, come accadrebbe se gli fosse consentito di ricavare dalla riallocazione del bene più di quanto avrebbe conseguito se il contratto avesse avuto regolare esecuzione. Per effetto della nuova normativa, non è più applicabile in caso di risoluzione del leasing finanziario l’art. 1526 c.c., in tema di vendita con riserva della proprietà.

Con riferimento ai canoni già riscossi, in mancando la previsione di un obbligo restitutorio, dovrebbe ritenersi applicabile ­ tenuto conto della ratio complessiva della disciplina e del riconoscimento al concedente del credito per i canoni scaduti e a scadere (seppur questi ultimi soltanto in linea capitale) ­ il principio di irretroattività inter partes degli effetti della risoluzione previsto dall’art. 1458 c.c. per i contratti di durata, cosicché i canoni versati restano definitivamente acquisiti dal concedente.

11. La vendita o ricollocazione del bene

Per evitare abusi in danno dell’utilizzatore, il legislatore ha previsto una articolata regolamentazione della procedura per la vendita o ricollocazione del bene. Il comma 139 dell’art. 1 L. n. 124/2017 dispone che il concedente procede alla vendita o ricollocazione del bene sulla base dei “valori risultanti da pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti specializzati”.

Tale possibilità assume rilevanza soprattutto nel caso di beni con caratteristiche standardizzate, la cui rivendita può (e deve) avvenire in modo celere e senza aggravi di costi che potrebbero andare a danno tanto dell’utilizzatore quanto del concedente. Si può ritenere che, in tal caso, le parti possano nel contratto di leasing individuare ex ante quali soggetti siano qualificabili come “specializzati” ed in che modo e misura le stime di tali soggetti possano considerarsi “valori risultanti da pubbliche rilevazioni di mercato”. Come pure sarà possibile prevedere nel contratto di leasing le modalità concrete di vendita o ricollocazione del bene sul mercato, sulla base del valore risultante dalle precitate pubbliche rilevazioni di mercato.

Il termine “ricollocazione” del bene, non definito dalla norma, comprende tutte le ipotesi di realizzazione del valore del bene diverso dalla vendita. Vi rientrano le ipotesi della stipulazione di un ulteriore contratto di leasing con altro utilizzatore e dell’utilizzo del bene per l’’esercizio dell’attività economica dello stesso concedente (come nell’ipotesi dell’immobile che il concedente intendesse adibire a propria filiale, o del veicolo da adibire ad auto aziendale).

Quando non è possibile fare riferimento ai predetti valori di mercato – in ragione dell’inesistenza di soggetti specializzati, o di valori di mercato non univoci, o ancora in considerazione delle caratteristiche specifiche del bene oggetto del contratto di leasing – occorre procedere alla vendita sulla base di una stima effettuata da un perito scelto dalle parti, di comune accordo, nei venti giorni successivi alla risoluzione del contratto o, in caso di mancato accordo nel predetto termine, da un perito indipendente, scelto dal concedente in una rosa di almeno tre operatori esperti, previamente comunicati all’utilizzatore, che può esprimere la sua preferenza vincolante ai fini della nomina entro dieci giorni dal ricevimento della predetta comunicazione.

L’attività dell’esperto non è limitata all’individuazione di un prezzo base di liquidazione, ma si estende all’indicazione dei successivi, eventuali ribassi ritenuti congrui al fine di soddisfare contemporaneamente le esigenze di celerità delle attività di liquidazione e di conseguimento del miglior ricavato possibile dalla stessa.

L’indipendenza del perito rappresenta un presidio di tutela degli interessi dell’utilizzatore e della concedente. La norma prevede genericamente in proposito che il perito si intende indipendente “quando non è legato al concedente da rapporti di natura personale o di lavoro tali da compromettere l’indipendenza di giudizio”. Con riferimento a tale nozione, si sono delineati due diversi orientamenti.

Secondo una prima interpretazione, più restrittiva, il perito è indipendente qualora non sia legato alla società di leasing da alcun rapporto di lavoro subordinato o autonomo. Secondo un diverso orientamento, che trova conforto nelle Circolari della Banca d’Italia n. 285 del 17 dicembre 2013 e n. 288 del 3 aprile 2015, contenenti le disposizioni di vigilanza delle Banche e degli Intermediari Finanziari, invece, la nozione di indipendenza dipende dall’assenza di conflitti di interesse in capo al perito rispetto al “processo di commercializzazione del credito” o “ad aspetti nevralgici” dell’erogazione del credito. Al riguardo, la citata normativa regolamentare attribuisce rilievo anche ai “rapporti di matrimonio o di unione civile, di parentela, di affinità e di convivenza di fatto e delle relazioni di natura professionale e patrimoniale intercorrenti tra tali soggetti” e “i soggetti coinvolti nel processo di erogazione del credito” e “i soggetti destinatari del finanziamento e i soggetti destinatari del finanziamento”. Tale seconda interpretazione, che riferisce l’attributo di indipendenza del perito allo specifico affare, sembra più ragionevole ed aderente alla prassi operativa del leasing finanziario.

Peraltro, si può ritenere che, anche nel caso in cui si proceda alla stima del valore del bene attraverso la nomina di un perito, concedente ed utilizzatore potranno disciplinare, nel contratto di leasing ed ex ante, le modalità concrete di effettuazione della stima da parte del perito, individuando gli standard ed i valori o rilevazioni a cui lo stesso perito dovrà attenersi, nonché la misura della progressiva riduzione del valore di stima del bene in caso di mancato perfezionamento della vendita entro tempi prestabiliti. Sarà inoltre possibile disciplinare nel contratto di leasing le tempistiche entro cui il perito dovrà comunicare alla concedente ed all’utilizzatore la relazione di stima, come pure le specifiche procedure di vendita o ricollocazione del bene sul mercato che dovranno essere esperite sulla base del valore risultante dalla stima effettuata dal perito.

Il comma 139 dell’art. 1 della L. n. 124/2017 dispone altresì che, in via generale, nella procedura di vendita o ricollocazione del bene il concedente si dovrà attenere a criteri di celerità, trasparenza e pubblicità, adottando modalità tali da consentire l’individuazione del migliore offerente possibile, con obbligo di informazione dell’utilizzatore. Tale ultima previsione è conforme alla prassi operativa del leasing finanziario.

La norma non disciplina cosa avviene se non si può dare luogo alla vendita o ricollocazione del bene per mancanza di offerte. In proposito sembra potersi ritenere che, nell’ambito dell’autonomia negoziale delle parti, le stesse possano accordarsi prevedendo eventuali ribassi nel caso in cui il bene non sia collocabile nel mercato al prezzo di vendita determinato dal perito.

La norma non regolamenta inoltre i casi in cui la vendita o la diversa collocazione del bene, conseguente alla risoluzione del contratto di leasing, non intervenga per un lasso considerevole di tempo, ovvero ancora sia di fatto inattuabile o del tutto diseconomica. Tale situazione può accadere frequentemente nella prassi del leasing, in quanto la vendita di taluni beni può intervenire a distanza di tempo rispetto al momento della risoluzione del contratto, con conseguenti maggiori oneri anticipati dalla concedente da imputare all’utilizzatore per la conservazione dello stesso bene. Tali casi potranno essere opportunamente regolamentati, contemperando gli interessi dell’utilizzatore e della concedente, in via contrattuale, prevedendo tempi e modi della vendita o ricollocazione del bene, il cui infruttuoso esperimento legittimi la concedente a ritenere non opportuno, in quanto diseconomico, l’esperimento di ulteriori attività di vendita o di ricollocazione del bene, provvedendo in tal caso all’offerta di trasferimento della proprietà del bene allo stesso utilizzatore.

La norma in oggetto non prevede se e quali altre eventuali somme (oltre a quelle espressamente dalla stessa previste) il concedente abbia eventualmente diritto di addebitare all’utilizzatore per effetto della risoluzione. Secondo un primo orientamento dei commentatori, sarebbe ammissibile l’addebito all’utilizzatore di somme ulteriori oltre a quelle previste dalla legge, per garantire al concedente un integrale ristoro economico comprensivo sia del danno emergente che del lucro cessante.

Secondo questo orientamento dunque, il concedente, conseguito il ricavato dalla liquidazione, ovvero determinato il valore desumibile dalla riallocazione del bene, avrebbe diritto di trattenere:

  • le spese anticipate per il recupero del bene;
  • il compenso per le attività di stima;
  • le spese di conservazione del bene sino alla vendita (o riallocazione);
  • i canoni scaduti e non pagati;
  • i canoni a scadere in linea capitale;
  • il prezzo di esercizio dell’opzione (dato che, non facendosi luogo alla restituzione del bene al concedente, la liquidazione del bene o la sua riallocazione equivalgono all’’esercizio dell’opzione da parte dell’utilizzatore).

Laddove residui una parte del ricavato dalla liquidazione, questa dovrebbe essere restituita all’utilizzatore; nel caso contrario, il concedente avrebbe diritto al pagamento di quanto non riscosso dall’incameramento degli importi sopra indicati.

Secondo altro orientamento, poiché la nuova normativa sembra aver determinato la prestazione dovuta dall’utilizzatore in caso di inadempimento, limitando il risarcimento alle somme previste dalla legge secondo quanto previsto dall’art. 1382 c.c., nel contratto di leasing potrebbe essere fatto salvo il diritto del concedente al maggior danno (oltre alle somme già previste dalla legge).  Tale eventuale maggior danno potrebbe essere concretamente esigibile nelle ipotesi di ritardo nel recupero delle somme spettanti al concedente che, nel caso di risoluzione, risultano incassabili solo all’esito della procedura di vendita, o nell’ipotesi di pregiudizio subito per ogni giorno di ritardo nella restituzione del bene da parte dell’utilizzatore (previsto per legge).

12. La disciplina applicabile ai rapporti non esauriti 

La L. n. 124/2017 non contiene una disciplina transitoria che disciplini i contratti non esauriti alla data di entrata in vigore della legge stessa. Si pone pertanto la questione – di diritto intertemporale – di stabilire se ed in quale misura gli effetti dei rapporti sorti in un periodo in cui non vi era una previsione normativa volta a disciplinare la risoluzione del contratto di leasing per inadempimento dell’utilizzatore siano interessati dalle disposizioni di cui all’art. 1, commi 136 – 140 della L. n. 124/2017.

Sul punto si è pronunciata la Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 2061 del 28 gennaio 2021. La S.C. ha ritenuto in primo luogo che la L. n. 124/2017 non ha effetto retroattivo, poiché manca una disposizione in tal senso da parte del legislatore e la stessa è intervenuta in modo innovativo a colmare una lacuna normativa circa la disciplina del contratto di locazione finanziaria e non già per fornire un’interpretazione autentica di una norma precedente. La legge n. 124/2017 è quindi applicabile ai contratti di locazione finanziaria per i quali non si sono ancora verificate le condizioni di risoluzione (di cui all’art.137 della legge stessa) per inadempimento dell’utilizzatore al momento della sua entrata in vigore, cioè non si sia già verificato il fatto generatore degli effetti della risoluzione.

Pertanto, per i contratti di leasing finanziario risolti prima dell’entrata in vigore della L. n. 124/2017 rimane valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, e per quest’ultimo deve essere applicato in via analogica l’art. 1526 c.c. Secondo la S.C., si riscontra infatti la stessa ratio, che consiste nel tutelare l’equilibrio delle posizioni delle parti contrattuali; infatti, si fornisce una garanzia anche al venditore/concedente, attraverso la previsione di un equo compenso (che potrà essere ridotto qualora eccessivo, per evitare un arricchimento ingiustificato) e del risarcimento del danno.

In base alla disciplina di cui all’art. 1526 c.c., in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l’onere quindi di formulare una completa domanda di insinuazione al passivo, nella quale, invocando ai fini del risarcimento del danno l’applicazione dell’eventuale clausola penale stipulata in suo favore, dovrà offrire al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva. A tal riguardo, il concedente ha l’onere di indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di leasing, ovvero, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito della stessa.

13. La disciplina applicabile al leasing finanziario in caso di fallimento 

L’art. 72-quater l. fall. disciplina le sorti del contratto di locazione finanziaria pendente – cioè non ancora interamente eseguito – al momento della dichiarazione di fallimento sia dell’utilizzatore che del concedente. Tale disciplina si applica anche a seguito della L. n. 127/2017, ai sensi del comma 140 dell’art. 1 di tale legge.

Il primo comma dell’art. 72-quater estende al contratto di leasing, in caso di fallimento dell’utilizzatore, la norma di cui all’art. 72 l. fall., di portata generale, la quale, relativamente ai rapporti pendenti, stabilisce la sospensione dell’esecuzione del contratto, attribuendo al curatore la facoltà di scelta, previa autorizzazione del comitato dei creditori, tra scioglimento del contratto o subingresso in luogo del fallito, riconoscendo al contempo al contraente in bonis la facoltà di mettere in mora il curatore facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a 60 giorni, decorso il quale, in difetto di diversa manifestazione di volontà del curatore, il contratto si intende sciolto.

Dunque, in caso di fallimento dell’utilizzatore, la locazione finanziaria entra automaticamente in una fase di sospensione, nell’attesa che il curatore scelga se subentrare nel contratto, assumendo tutti i relativi obblighi, oppure sciogliersi dal suddetto vincolo. In particolare, il curatore dovrà valutare l’ammontare dei canoni residui e il prezzo di opzione al momento della dichiarazione di fallimento, comparati al valore di mercato del bene; a seguito di tale analisi, il curatore dovrebbe optare per il subentro qualora il pagamento dei canoni residui al momento del fallimento e il prezzo di opzione siano inferiori al valore di mercato del bene oggetto del contratto. In quest’ultimo caso, infatti, pagando in prededuzione i canoni residui oltre al prezzo di riscatto, il fallimento può ottenere in proprietà il bene e potrà in seguito rivenderlo con una plusvalenza per la massa fallimentare.

La regola della sospensione ex lege del contratto non trova peraltro applicazione nel caso in cui venga disposto l’esercizio provvisorio dell’impresa dell’utilizzatore fallito, in quanto, in tal caso, tutti i beni strumentali la cui disponibilità da parte dell’imprenditore è acquisita attraverso il leasing deve essere necessariamente mantenuta anche dal curatore, il quale subentra nel contratto.

Se il curatore decide di subentrare nel contratto, assume tutti gli obblighi che dallo stesso derivano, con la conseguenza che il pagamento dei canoni diviene un debito della massa che deve essere pagato in prededuzione, cioè senza subire la falcidia del concorso con gli altri creditori. In questo caso, con riferimento ai canoni scaduti e rimasti insoluti alla data della dichiarazione di fallimento, trova applicazione la disciplina dell’art. 74 l. fall. – norma avente portata generale in materia di contratti ad esecuzione continuata o periodica come è quello di locazione finanziaria – il base al quale il curatore deve integralmente pagare il prezzo anche delle consegne già avvenute o dei servizi erogati.

Qualora invece il curatore decida di sciogliere il contratto, al concedente è riconosciuto il diritto alla restituzione del bene, con l’obbligo di versare alla curatela l’eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o altra allocazione del bene a valori di mercato rispetto al credito residuo, relativamente alla sola linea capitale.

Se il ricavato dalla vendita del bene risulta insufficiente a coprire il credito del concedente per canoni non pagati dall’utilizzatore, in linea capitale, il concedente avrà diritto di insinuarsi al passivo fallimentare per la differenza tra il credito vantato e quanto ricavato dalla liquidazione del bene. In tal caso è esclusa l’esperibilità dell’azione revocatoria, sempre che si tratti di pagamenti eseguiti dal fallito nei termini d’uso, ai sensi dell’art. 67, terzo comma, lett. a) legge fallimentare.

Le due voci “credito residuo in linea capitale” e “credito vantato alla data del fallimento” hanno diversi imputazione e contenuto.

Il “credito residuo in linea capitale” è costituito dalla quota capitale dei canoni scaduti e non pagati dall’utilizzatore fino alla data della dichiarazione di fallimento, nonché dall’attualizzazione al tasso previsto nel contratto di leasing per i canoni residui e successivi e per l’opzione finale di acquisto. Tale voce rappresenta quindi solo una parte del credito, costituita dal valore complessivo (residuo) scorporato dalla componente degli interessi contenuti nei canoni periodici insoluti e di quelli che scadono successivamente alla dichiarazione di fallimento.

Pertanto, quale proprietaria del bene, la società di leasing ha diritto di recuperare per intero il proprio “credito residuo in linea capitale”, soddisfacendosi integralmente su quanto effettivamente ricavato dalla vendita o dalla riallocazione del bene stesso ai valori di mercato e al netto delle spese sopportate. L’eventuale differenza tra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra allocazione del bene ed il credito residuo in linea capitale deve essere versata al curatore e non può essere compensata con il credito insinuato al passivo dalla società di leasing concedente.

Il “credito vantato alla data del fallimento”, che costituisce l’oggetto della domanda di ammissione al passivo, è costituito non solo dall’eventuale residuo credito in linea capitale non soddisfatto da quanto ricavato dalla vendita o riallocazione del bene, ma anche dalla remunerazione del capitale impiegato, rappresentato dagli interessi incorporati nei canoni periodici insoluti fino alla data di fallimento, inclusi gli interessi di mora e gli ulteriori eventuali crediti dovuti in forza del contratto, con esclusione del risarcimento del danno. Tale voce ha dunque un perimetro più ampio, in quanto include il credito scaduto alla data della dichiarazione d fallimento – in linea capitale e a titolo di interessi – e il credito in linea capitale incorporato nei canoni a scadere.

Il riferimento al “valore di mercato” impone al concedente di osservare un procedimento che garantisca che la liquidazione del bene avvenga al miglior prezzo; in altri termini, la società di leasing – nella sua attività di ricollocazione del bene sul mercato – è incentivata a conseguire il prezzo massimo. In caso contrario, il concedente avrebbe – verosimilmente – prestato attenzione ad ottenere un corrispettivo pari al valore residuo del bene (così da evitare una probabilmente infruttuosa ammissione al passivo), e non avrebbe avuto nessuno stimolo a conseguire un prezzo che – per la parte eccedente le somme dei canoni a scadere – sarebbe stato da restituire alla procedura.

La norma non disciplina la sorte dei pagamenti già effettuati dall’utilizzatore del bene in leasing poi fallito. In proposito, in dottrina si ritiene che non possa dedursi dalla esclusione della revocatoria fallimentare per i pagamenti già avvenuti nell’esercizio dell’attività di impresa nei termini d’uso una generale definitività dei pagamenti anche sul piano contrattuale, essendo diversi i due ambiti.

Secondo l’opinione prevalente, l’art. 72 quater, dettando una disciplina per consentire al concedente la soddisfazione del credito residuo per canoni non pagati, differenzia il contratto di leasing dai contratti onerosi di godimento, come la locazione o l’affitto, per i quali le prestazioni già eseguite sono intangibili e ogni obbligo relativo alle prestazioni non ancora eseguite si estingue, trattandosi di rapporti di durata. Si ritiene infatti che nel leasing le prestazioni già effettuate dall’utilizzatore, cioè i canoni pattuiti e pagati, essendo stati determinati nel loro ammontare sia quali corrispettivi per il godimento del bene che quali corrispettivi finalizzati all’acquisto del bene stesso, scontano anche una quota di prezzo, per cui con lo scioglimento del contratto dovrebbero essere restituiti dal concedente al fallimento, in quanto la causa di scambio cui tali pagamenti erano strumentali non si è realizzata.

Conseguentemente, si ritiene che il curatore abbia diritto di richiedere al concedente la restituzione dei canoni pagati dall’utilizzatore fallito. Al contempo, il concedente avrà diritto a ricevere un equo compenso ex art. 1526 per l’uso del bene da parte dell’utilizzatore.

Si è posto il problema dell’applicabilità dall’art. 72-quater legge fallimentare alla fattispecie in cui il contratto di leasing si sia risolto prima della dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore. Sul punto, la menzionata sentenza della Cass. Sez. Un. n. 2061/2021 ha ritenuto che per i contratti di leasing finanziario per i quali il fallimento dell’utilizzatore si sia verificato solo dopo la risoluzione del contratto, deve essere applicato in via analogica l’art. 1526 c.c. e non l’art. 72-quater L.F. Secondo la S.C., infatti, quest’ultima norma è eccezionale, a valenza e portata endo-concorsuale, e presuppone lo scioglimento del contratto per volontà del curatore e per effetto del fallimento.

L’ultimo comma dell’art. 72-quater l. fall. disciplina le sorti del contratto in caso di fallimento del concedente, prevedendo in tal caso la prosecuzione del rapporto con facoltà dell’utilizzatore di acquistare alla scadenza del contratto la proprietà del bene, previo pagamento dei canoni e del prezzo pattuito.

Il fallimento del concedente non è dunque causa di scioglimento del contratto, ma comporta il subingresso del curatore in luogo del fallito.

La ratio della norma risiede essenzialmente nella finalità di evitare il pregiudizio dell’affidamento collegato alla cartolarizzazione dei crediti delle società di leasing, al fine di impedire l’interruzione dei flussi di pagamenti delle rate dei contratti in corso che appunto possono essere stati cartolarizzati dalle società di leasing prima del fallimento.

Avv. Valerio Pandolfini

Consulenza legale d’impresa

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