Pignoramento dei beni del socio di cooperativa

La questione controversa

I soci di numerose società cooperative edilizie in dissesto sono gravemente e ingiustamente pregiudicati dalla mancata stipula dell’atto di compravendita del bene immobile assegnato, almeno in parte pagato, e, talvolta, già abitato.
Avviene frequentemente, infatti, che la società cooperativa, indebitata sia con i soci, che con il sistema del credito, non completi la costruzione oppure la completi, ma non sia in grado di estinguere l’ipoteca iscritta a garanzia, e, a causa del dissesto e dell’impossibilità di condurre a termine la gestione, incorra nella liquidazione coatta amministrativa o nel fallimento.
Così come avviene frequentemente che i soci siano privi della tutela offerta dal d.lgs. n. 122 del 2005.
La legge fallimentare, che disciplina la liquidazione coatta amministrativa e il fallimento, prevede che la procedura alieni i beni immobili invenduti, su cui grava l’ipoteca, al miglior offerente e paghi i creditori, tra cui i soci privi di garanzia, nel rispetto dei gradi di privilegio legale.
Avviene di solito, nel dissesto, che il credito bancario esorbiti il valore dei beni invenduti e che il ricavato della vendita sia assegnato interamente alla banca creditrice, titolare dell’ipoteca e, quindi, del privilegio legale.
Avviene inoltre, sempre più spesso, che la banca creditrice ceda, nelle more della procedura concorsuale, il proprio credito in favore di una società costituita ad hoc o preesistente sul mercato dei crediti in sofferenza, a condizioni di saldo, perfino inferiori al potenziale valore di mercato dei beni, per evitare l’impasse delle lungaggini amministrative e giudiziarie.
In tal caso, la società cessionaria diviene titolare dell’intero credito garantito e, di fatto, destinataria del ricavato della procedura.
I soci, insoddisfatti nelle loro legittime aspettative di acquisto della proprietà, nel frattempo, sono ammessi, a loro volta, allo stato passivo della procedura, essendo creditori degli importi di denaro corrisposti a titolo di acconto sul prezzo, e, tuttavia, non essendo muniti di privilegio legale, sono, di fatto, esclusi dalla distribuzione del ricavato.
Al danno da essi subìto si aggiunge, pertanto, la beffa che la società cessionaria del credito, avendo corrisposto un prezzo esiguo per il credito acquistato (che ai soci e alla procedura concorsuale non viene nemmeno comunicato d’ufficio), incassi l’intero ricavato della vendita.
I soci non sono parti contraenti della banca, che ha stipulato il finanziamento con la cooperativa, e, men che meno, della società cessionaria del credito, e non possono, quindi, esercitare pretese in via contrattuale nei confronti dell’una o dell’altra, e, tuttavia, possono – secondo la nostra opinione – legittimamente pretendere che i loro diritti di credito siano considerati dalla banca e dalla società cessionaria nell’ambito della cessione, in prevenzione di un (ulteriore) danno ingiusto a loro carico.
Con questa breve nota, ricordiamo l’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza in materia di responsabilità extracontrattuale e di danno ingiusto, meritevole di considerazione, in sede di negoziazione tra i soci e la banca o la società cessionaria ovvero in sede giudiziaria, e concludiamo con l’esame del contratto di cessione del credito, per rilevare, con evidenza apprezzabile in giudizio, gli effetti antigiuridici della cessione sulle persone dei soci.

Il risarcimento per fatto illecito

Il riconoscimento del danno ingiusto, meritevole di liquidazione risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c., ha avuto un percorso accidentato nel dopoguerra e, tuttora, tra fatto, dottrina e giurisprudenza, la perfetta sintonia è ben lungi dal costituire un patrimonio acquisito dell’ordine pubblico e sociale.
Il precetto normativo è generale e astratto, come è – e deve essere – una norma di legge, rivolta per la sua funzione a disciplinare concretamente, in giudizio, i conflitti tra titolari di diritti e interessi contrapposti: nel caso in questione, di soggetti (i soci) che hanno subìto, al di fuori di un rapporto contrattuale, un danno apprezzabile sotto il profilo fattuale, e siano, per ciò, legittimati ad essere risarciti da soggetti terzi, in virtù della (in ipotesi, controversa) riconducibilità del fatto lesivo alla loro condotta.
La previsione letterale dell’art. 2043 c.c. è ampia e indeterminata (“Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”) e si è prestata, per l’adattabilità della norma all’integrazione con i contenuti concreti del fatto controverso in giudizio, alla formulazione di prospettazioni anche fortemente divergenti, a cui non è mancato il contributo dei comparatisti, essendo mutuata la disciplina del vigente Codice Civile (anno 1942) dal Code Napoléon (anno 1804) e dal previgente Codice Civile del Regno d’Italia (anno 1865).
Il dibattito ha riguardato, nel corso del tempo, il tipo di diritto ammissibile alla tutela del risarcimento per fatto illecito, l’eventuale tipizzazione dei diritti ammissibili alla tutela giudiziaria e, comunque, la qualificazione del danno, ascrivibile, o meno, all’illiceità di una condotta specifica, colposa o dolosa, meritevole della sanzione risarcitoria.
Non ogni danno, infatti, può essere considerato ingiusto. Si può ritenere – e sostenere in giudizio – che sia ingiusto il danno che abbia provocato la lesione di un diritto tutelato dall’ordinamento.
L’evoluzione della giurisprudenza è stata lunga e laboriosa. La Suprema Corte a Sezioni Unite Civili, con la storica sentenza n. 500 del 1999, ha definito norma primaria l’art. 2043 c.c. ed ha attratto nella giurisdizione del giudice ordinario, e nella risarcibilità, gli interessi legittimi, che, fino ad allora, avevano costituito materia di giurisdizione esclusiva della Giustizia Amministrativa.
La Corte, affermando che “la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma secondaria, volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme, bensì norma primaria volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui”, ha attribuito, alla disposizione di legge, funzione precettiva, non soltanto sanzionatoria.
Il precetto, rivolto alla comunità sociale come invito generalizzato ad astenersi da comportamenti nocivi in danno dei terzi, in conformità al noto principio del neminem laedere, tuttavia, è stato viepiù sottoposto a verifica dottrinale e giudiziaria, in relazione all’ampiezza dei rapporti sociali e all’attuazione dei diritti costituzionali.
Con argomentazione a contrario, è stato dibattuto il paradosso del danno ingiusto, con riferimento alle attività umane che, talvolta, implicano il danno del terzo con la loro stessa realizzazione (ad esempio: il “danno” oggettivo provocato, sul mercato di riferimento, dal corretto esercizio della concorrenza leale).
E’ stata progressivamente rilevata la mancata attuazione, sia in sede sociale, che in sede giudiziaria, dei principi fondanti della Costituzione, con specifico, particolare riferimento agli artt. 2 (diritti inviolabili), 41 (iniziativa economica) e 47 (risparmio), finché la Corte di Cassazione è intervenuta sul punto, chiarendo che le norme costituzionali sono direttamente applicabili nell’ordinamento (mentre si era anche autorevolmente sostenuto che le norme costituzionali fossero meramente programmatiche).
Del pari, nel corso del tempo, sono stati attratti nella tutela offerta dall’art. 2043 c.c. i diritti relativi, e quindi il diritto di credito.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 174 del 1971 sul caso Meroni (un noto campione di calcio del Torino, vittima di un incidente automobilistico), si è posta il quesito “se un siffatto rapporto sia tutelabile, a favore del creditore, di fronte al fatto illecito del terzo che abbia inciso sulla persona del debitore, sopprimendola, e, ancor prima, l’altro quesito, di portata più generale, se sia ammissibile la tutela aquiliana, di cui all’art. 2043 c.c., in caso di lesione del credito da parte di soggetto estraneo al rapporto obbligatorio”, e ha invertito il proprio precedente orientamento, riconoscendo che: “in verità, il principio che la risarcibilità del danno ex art. 2043 c.c. debba ammettersi solo con riguardo alla lesione di diritti assoluti o primari, quali i diritti alla vita, all’integrità personale, alla proprietà, all’onore, e non possa invece invocarsi da parte di chi deduca la lesione di un diritto relativo, e, in particolare, di un diritto di credito, è tutt’altro che estraneo alla giurisprudenza di questa Corte”.
Il destino ha voluto che la Suprema Corte abbia rivisto il proprio orientamento in una controversia concernente lo stesso Club del Torino, escluso, in precedenza, dalla tutela risarcitoria, in occasione dell’incidente aereo del 1949, nel quale l’intera squadra aveva trovato la morte sulla collina di Superga.
Tra l’una e l’altra sentenza, e, per la verità, come si è visto, anche in seguito, i giuristi non hanno smesso di interrogarsi sulla portata della norma risarcitoria, orientandosi per la progressiva estensione della tutela, per tenere nella dovuta considerazione anche i “nuovi” diritti del cittadino, introdotti nell’ordinamento dai principi e dai valori della Costituzione repubblicana.
E, quindi, gli interpreti hanno ravvisato l’esigenza di tutela di tali nuovi diritti, consistenti nella salute, nella personalità morale e biologica, nella riservatezza, nei rapporti familiari, nell’abitazione, negli orientamenti sessuali, nell’ambiente, nei diritti di credito e, più recentemente, nell’integrità del patrimonio, e i giudici, in un percorso laborioso e non sempre parallelo, eppure sempre estendendo la precauzione di antigiuridicità dei comportamenti lesivi dei diritti e interessi altrui, hanno offerto contenuto concreto alle pretese sottoposte a valutazione giudiziaria.
Si è, così, affermato il principio che la responsabilità extracontrattuale sussista e sia meritevole di tutela giudiziaria e di conseguente sanzione risarcitoria a carico dell’artefice del danno, quando gli elementi costitutivi della fattispecie astratta, consistenti nella colpa o dolo e nel danno, siano integrati, in concreto, da un elemento di fatto lesivo di una situazione giuridica protetta dall’ordinamento, idonea ad essere rappresentata in giudizio come situazione legittimante e legittimata, in cui la fattispecie sia prospettata come non jure e contra jus..
In concreto, il fatto produttivo del danno non jure non è suscettibile di essere altrimenti giustificato dall’ordinamento ed è contra jus quando contravviene ad una situazione giuridica soggettiva, riconosciuta e garantita dall’ordinamento giuridico nella forma di diritto soggettivo, assoluto o relativo.
La Suprema Corte, all’esito del percorso pluridecennale, ritiene, ora, arbitraria ogni discriminazione tra l’una e l’altra categoria dei diritti soggettivi, al fine del riconoscimento di meritevolezza della tutela giudiziaria, demandata al giudizio di valore e al prudente apprezzamento del giudice.

L’accertamento giudiziario

Il giudice, nell’adempimento dell’attività giudiziaria civile, che si sostanzia nella sentenza, è soggetto soltanto alla legge. Il suo giudizio si esprime nelle due parti inscindibili della sentenza: il dispositivo e la motivazione. Nella motivazione, il giudice deve esporre concisamente i fatti e dare conto alle parti, anche a fini di eventuale gravame, delle ragioni giuridiche della decisione.
E’ evidente che le ragioni della decisione non possono essere affidate a mere congetture o alle inclinazioni personali del giudice, eventualmente conformi alle espressioni del cosiddetto senso comune; né possono fare generico riferimento alla coscienza sociale o all’evoluzione dei costumi.
La motivazione nasce, in effetti, dal contraddittorio tra le parti (e, in realtà, anche tra le parti e il giudice, a cui la legge assegna la conduzione del processo e quindi il potere, ad esempio, di ammettere, o meno, le prove richieste, sulla base degli argomenti svolti dalle parti) e si esaurisce – sempre per legge – nell’ambito della domanda (“il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa …”, ex art. 112 c.p.c.).
Il processo si svolge, quindi, sui fatti, di solito controversi, salvo che non siano controverse esclusivamente le conseguenze dei fatti, e sulla gerarchia di valori implicata dai fatti e dalle norme di legge applicabili alla vicenda contenziosa, sulla base della qualificazione dei fatti.
Si tratta, in effetti, delle “premesse” del giudizio, che, da sempre, costituiscono materia di dibattito di filosofi e di operatori (giudici e avvocati) del diritto.
Guido Calogero, filosofo del diritto, redattore dell’opera risalente, ma immortale, “La logica del giudice e il suo controllo in Cassazione”, rivalutata negli anni più recenti, distingue tra la logicità formale del ragionamento sillogistico, consistente nella deduzione necessaria della conclusione dalle premesse, e la logicità reale del ragionamento, dipendente dall’attività di ricerca e di definizione delle premesse, che precede il sillogismo.
Secondo Calogero, “la vera e grande opera del giudice sta proprio nel trovare e formulare le premesse”, ma tale opera “si muove per intero in un àmbito che non è logico, ma anzi prelogico o estralogico”.
L’attività di sussunzione del fatto nella norma, da parte del giudice, non è, pertanto, meccanica, automatica, e non assume il fatto come realtà predefinita, prodotto dall’accertamento tecnico fondato sulle evidenze implicate dall’orto concluso della logica formale, sottratta alla legge del “probabile” o “preferibile”.
Il giudizio, in sostanza, non è dominato – come avveniva in passato – dalla mera logica formale e il giudice non è puramente e semplicemente la bouche de la loi.
Luigi Lombardo, magistrato, autore erudito di opere sul processo, dice: “Il cuore della sussunzione sta nella “selezione delle premesse”, le quali non sono affatto precostituite rispetto all’interpretazione, ma possono scaturire solo da giudizi assiologici affidati al giudice. Il giudice deve, dunque, compiere “giudizi di valore” per interpretare e applicare la norma giuridica; e i giudizi di valore si contrappongono alla logica formale, in quanto riposano su un presupposto – il “valore” – non passibile né di controllo logico, né di verificazione empirica: il valore si pone sul piano della “opinione”. Proprio perché le premesse sono opinabili e vengono scelte sulla base di giudizi di valore, l’argomentazione risulta connotata da soggettività: una soggettività che prende il posto della obiettività propria del modello positivistico. Ma soggettività non vuol dire soggettivismo. La soggettività dell’argomentazione topico-dialettica è incontro di soggettività diverse, è cioè “intersoggettività”. Intersoggettività delle premesse vuol dire, in primo luogo, che queste devono essere reperite, non nel limitato pensare individuale del singolo giudice, ma – grazie al ricorso alla topica – nell’ambito del “senso comune” (sensus communis), della “cultura media”, dell’opinione (maggiormente) condivisa nell’intera comunità sociale. Tale comunità corrisponde alla “comunità civile” quando si tratta di accertare o di valutare una situazione di fatto; corrisponde, invece, alla “comunità dei giuristi” quando si tratta di interpretare e determinare il significato della norma”.
Visto che il processo si svolge sulla base della domanda, impegnativa delle premesse e dei valori implicati, e non può eccederla, il contributo intellettuale e umano dell’avvocato può essere determinante, agli effetti del “reperimento” e della definizione delle premesse, su cui il giudice è chiamato a decidere.

La cessione dei crediti

La materia della cessione dei crediti è disciplinata dagli artt. 1260 e seguenti c.c. e, limitatamente alle operazioni di cartolarizzazione, dalla legge n. 130 del 1999, in seguito più volte emendata.
La legge n. 130 è stata, inoltre, integrata in sede europea, negli anni più recenti, dalle direttive concernenti, in particolare, la disciplina del rapporto di conto corrente bancario.
Ai fini di questa nota, centrata sulla lesione (in ipotesi, illecita) dei diritti dei soci di società cooperative edilizie in dissesto, la cessione dei crediti bancari (che sono debiti delle cooperative), garantiti da ipoteca, in favore di società terze, costituisce la premessa del fatto lesivo.
In concreto, i soci non sono danneggiati dalla cessione, di per sé legittima, ma – ipoteticamente – dagli effetti della cessione, che si riverberano sui soci.
E’ rilevante, ai fini dell’analisi forense, il contesto della cessione, in conseguenza della quale i soci, eventualmente danneggiati (come potrà dimostrare l’accertamento giudiziario sugli elementi costitutivi del fatto illecito: colpa o dolo, fatto ed elemento integrativo del danno), sono legittimati a svolgere domanda risarcitoria per danno ingiusto, ex art. 2043 c.c..
Si vede bene, così, la differenza tra la logica formale, in cui si sostanzia il sillogismo del modello positivistico, nelle parole dell’autore prima citato, e il giudizio di valore affidato al compito attuativo/interpretativo del giudice.
Il sillogismo, nel merito della questione in esame, tende ad affermare: la cessione dei crediti è, in astratto, consentita dalla legge (“anche senza il consenso del debitore”, ex art. 1260 c.c.), quindi la cessione dei crediti, vantati dalla banca nei confronti della società cooperativa, è, in concreto, consentita dalla legge (e, quindi, lecita e, in quanto tale, improduttiva di alcun danno).
Nel sillogismo positivistico applicato alla fattispecie in questione, alla premessa precostituita, generale e astratta, ampia per la funzione previsionale della norma, corrisponde la conseguenza logica, specifica, “necessaria”, a prescindere da ogni considerazione sugli effetti lesivi della cessione.
Il giudizio di valore deriva, invece, da premesse di rilievo assiologico, che non limitano l’esame della materia controversa all’automaticità del processo, contrattuale nella fattispecie, ma si estendono agli effetti del fatto complesso, al fine di indagarne, sulla base della domanda proposta dalla parte lesa, nell’ambito dell’accertamento giudiziario, tutti i profili fattuali e le conseguenze nocive in danno dei terzi interessati, sia in senso reale, che processuale (nella fattispecie, i soci).
Nella gerarchia di valori sottoposta all’esame del giudice, il “vantaggio” della banca e della società cessionaria, posto che di vantaggio si tratti, assume rilievo nel confronto con lo “svantaggio” subìto dai soci, privati del denaro e della legittima aspettativa di acquisto del bene immobile, assegnato e, almeno in parte, pagato.
Assumono, pertanto, rilievo concreto nel processo, oltre all’astrattezza della fattispecie contrattuale della cessione dei crediti, argomenti, quali: 1. l’esiguità del prezzo pagato dalla società cessionaria (che, bene, potrebbero pagare alla banca direttamente i soci pretermessi, diventando, così, titolari del credito e del diritto ipotecario), 2. il finanziamento bancario sottratto al circuito virtuoso della realizzazione dei beni immobili, a cui corrispondono i diritti dei soci, per essere avviato, di contro, a speculazione, se non a locupletazione, in favore della società cessionaria, priva, nel contesto, di alcun merito giuridico ed economico, 3. lo svilimento del risparmio, che è bene di rilievo costituzionale.
Il denaro trattato dalla banca, dapprima mediante il finanziamento, in seguito mediante la cessione del credito, infatti, è bene amministrato, proprietà dei risparmiatori, affidato dai legittimi titolari, fiduciariamente e temporaneamente, alla gestione del sistema del credito.
Si dimostra, così, sotto vari profili, l’inconsistenza della premessa, implicita nella fattispecie astratta dell’art. 1260 c.c., che il contesto in cui versa il debitore ceduto sia sempre indifferente alla cessione e alla concreta titolarità del credito.
Sfuggono, alla brevità della nota, altri, pur rilevanti, elementi costitutivi della cessione dei crediti, quale è, ad esempio, la causa del contratto di cessione, che non è tipo contrattuale, bensì negozio a causa variabile: precisiamo, tuttavia, in conclusione, che tali altri elementi, offerti al contraddittorio nel giudizio di accertamento del danno ingiusto, possono assumere rilevanza significativa agli effetti della decisione.

Quali doveri obblighi Ha un a socio a di cooperativa?

partecipare alla stesura delle strategie interne, dei programmi di sviluppo ed alla realizzazione dei processi produttivi;.
concorrere attivamente alla gestione dell'impresa;.
· partecipare alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell'impresa..

Chi risponde delle obbligazioni sociali della società cooperativa?

Dispositivo dell'art. 2518 Codice Civile. Nelle società cooperative per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio.

Quali sono i diritti del socio che recede dalla cooperativa?

L'ipotesi di recesso legale prevista in modo specifico per cooperative, sia prima che dopo la riforma del diritto societario, è quella di cui all'articolo 2530 u.c., che riconosce al socio il diritto di recedere allorquando lo statuto vieti la cessione delle azioni o delle quote.

Quando fallisce una cooperativa?

Secondo i giudici di legittimità, il fallimento di una società cooperativa può essere dichiarato, in applicazione dell'art. 2545 terdecies c.c., quando dai dati di bilancio emerga chiaramente che l'impresa persegue un fine incompatibile con quello mutualistico.